LA NATURA COSTRUITA – IL PARADISO DEGLI UOMINI


DOV’È LA NATURA?

1.
cos'è la natura per l'uomo? Vegetazione? Animali? Paesaggio? Esiste una vegetazione antropica (esistente nell'ambiente umano) che non sia stata manipolata dall'uomo con piantumazioni, innesti, concimazioni? Esistono animali viventi nell'ambiente umano che non dipendano dall'industria e dal lavoro dell'uomo?
Flora e fauna condividono quindi gran parte del nostro ambiente 'artificiale'.

Dov'è quindi la natura?

Dovunque, tutto ciò che ci circonda è natura: l'erba dei prati, gli uccellini in gabbia, le stesse case, le automobili, i computer, tutto, sia perché sono fatti di elementi, di materiale naturale, sia perché ci stanno intorno come tutto ciò che è natura.
Dov'è allora la cultura, la tecnica, l'artificio?

La cultura non ci sta intorno: ciò che ci sta intorno è la natura.
La cultura invece sta prima, essa precede la natura.


UN INTERVENTO


Alessandro Giannetti dice:

Mi piace molto la riflessione e la decontestualizzazione dalla cultura, una domanda però che mi pongo è se davvero la cultura stia prima della natura, per me ad esempio la natura trascende e la cultura può fondersi con la natura (sia intesa come ambiente che ci circonda e metabolizzato, sia intesa come azione del vivere e dunque ciò che per noi è naturale fare o respirare).

Che la cultura sia prima della natura però mi porta a pensare o ad una creazione divina che non sento, oppure ad una prevaricazione, che di fatto non esiste, della cultura. Anche quando la cultura tenta di indebolire la natura infatti (danni ambientali, ecc) non ci riesce mai fino in fondo in quanto la natura sopravvive all'umanità come è sopravvissuta ai dinosauri (e pure alla terra se vogliamo, è natura anche la galassia e lo spazio infinito). La cultura, invece, ci circonda, eccome, in ogni oggetto o azione che ci sta intorno, in tal senso, diventa essa stessa ambiente naturale o naturalizzato ma non necessariamente natura.


RISPOSTA INTERLOCUTORIA

Quello che dice Alessandro è giusto - la natura trascende la cultura che vi si dovrebbe fondere. Vorrei però su questo fare due annotazioni: il verbo fondere non è esatto, il verbo trascendere si può usare in una visione metafisica, ma nel mio intervento è improprio. Quello che a me interessa non è uno statuto generale di natura e cultura ma il rapporto che l'uomo assume nei confronti della natura con il suo fare, cioè con la cultura. La cultura viene prima della natura per l'uomo perché l'uomo non può toccare la natura senza trasformarla, quindi la tocca trasformata, quindi 'dopo'.

È vero: per trasformarla l'uomo tocca la natura prima di usarla, quindi 'prima', ma il prima e il dopo sono collocabili in vista dello scopo, quello di usarla, per questo dopo.
Ma il prima è importante perché è lo specifico culturale.

Ancora due parole sul prima e sul dopo.

Prima c'è la natura (anche culturalizzata), poi su questa l'intervento trasformatore dell'uomo che produce una natura nuova a un livello diverso di culturalizzazione. La natura a questo nuovo livello torna a porsi per l'uomo e il resto del mondo come natura.



DOV’È LA CULTURA?


L'uomo è natura e non può vivere senza la natura. La natura esterna, l'uomo la deve prendere.
Come del resto fanno tutti gli altri esseri viventi.
Per prendere la natura esterna però l'uomo deve agire culturalmente, deve trasformarla, fare cultura.


Ma cos'è e dov'è la cultura?
In che senso l'uomo fa cultura trasformando la natura?



Non si tratta tanto e solo del fatto che l'uomo usa gli strumenti, in certo senso e in modo approssimativo anche alcuni animali usano gli strumenti anche se non c'è niente di paragonabile rispetto all'uomo. Più decisivo comunque è il fatto che l'uomo usa gli strumenti non per prendere la natura esterna così com'è, ma appunto, per trasformarla. Come?


L'uomo trasforma la natura entrando nelle viscere della natura e agendo come la natura. L'amico Karl Marx direbbe che l'uomo facendo ciò opera il ricambio organico uomo-natura.


Se ci pensiamo bene è esattamente ciò che avviene per tutti gli esseri viventi che mangiano, trasformano la materia e rendono alla materia il prodotto trasformato, oppure operano la trasformazione dell'atmosfera con l'azione clorofillana, con la trasformazione del paesaggio e con la decomposizione dei corpi.


L'uomo sta dentro questa operazione allo stesso livello degli altri esseri viventi da una parte e dall'altra - a livello culturale - introducendo in questa stessa funzione un'azione con il turbo. Questa trasformazione turbo-culturale è resa possibile dal fatto che l'opera trasformativa nell'uomo passa anche dalla coscienza: l'uomo opera il ricambio organico uomo-natura agendo consapevolmente dentro la natura, come la natura.


L'uomo entra con la sua coscienza dentro la natura, la studia, la pensa e forza i meccanismi interni al suo processo per trasformarne il funzionamento: studia la composizione della materia a livello atomico per agire sugli atomi, provocarne la scissione, provocare la reazione a catena e ottenere l'esplosione atomica. Poi, di fronte all'evento da esso causato culturalmente, l'uomo si pone come davanti ad ogni altro evento naturale, cataclismatico: fugge, prova terrore e muore. In effetti la trasformazione della natura non nega la natura, ciò che esplode sempre natura è.



Di nuovo: se l'uomo trasforma la natura lasciando che essa resti natura, dove si colloca la cultura?


Nell'atto trasformativo. Nell'atto mentale consapevole della comprensione della natura e nell'atto consapevole di agire su di essa. Nel pensiero di Robert Oppenheimer, nella decisione di Harry Truman e nell'azione di Paul Warfield che sganciò il prodotto culturale su Hiroshima.
Diciamo che la cultura si è realizzata nell'azione di questi tre uomini e soltanto nel momento di pensiero decisione e azione di questi tre uomini. Per il resto dell'umanità, e per il resto della vita di questi stessi tre uomini la natura trasformata dalla cultura si è riproposta come natura tout court.


La cultura si realizza nella coscienza di pochi uomini in modo parziale, per il resto la cultura crea un evento e un paesaggio culturale generalizzato che però si ripropone universalmente come natura.



LA CULTURA SCOPRE LA NATURA


L'uomo trasforma la natura e la cultura si colloca nel momento della trasformazione, dopo di che, ciò che è stato un evento culturale viene riassorbito dalla natura e torna ad ergersi come natura.


Che funzione specifica assolve l'episodica trasformazione culturale?


Ogni uomo può imparare a suonare la chitarra, ma, malgrado l'impegno, c'è sempre qualcuno che emerge decisamente sugli altri, qualcuno per il quale la chitarra sembra esser fatta appisitamente.

Similmente fra tanti apprendenti qualcuno emerge in modo prepotente nell'usare un'auto da formula 1, un altro nell'uso del computer. Osservazione ovvia. Ma che sarebbe stato (e cosa è stato) del giovane che ha scoperto la propria vocazione per la chitarra prima dell'invenzione della chitarra, o del giovane dotato per la corsa delle automobili prima dell'invenzione dell'automobile, e del giovane informatico prima dell'invenzione del computer?


Certo, tutti avrebbero fatto altre cose, forse si sarebbero realizzati in altro. Forse. Dobbiamo supporre che le vocazioni non siano facilmente interscambiabili. Ora c'è da dire che le vocazioni sono doti tipicanente naturali. Che duccede funque?
La cultura inventa cose e le cose culturali inventate diventano levatrici, scopritrici di doti naturali fino ad allora nascoste:



La cultura quindi scopre aspetti sempre diversi della natura e li esalta.



La cultura non si oppone alla natura, al contrario la rivela in aspetti continuamente nuovi.
Questa rivelazione è partorita dall'azione trasformatrice della cultura sulla natura: una volta avvenuta, ciò che era nascosto diventa palese e si pone nell'universo per ciò che è: natura.



I LIMITI ILLUSIORAMENTE SUPERATI DELLA CULTURA


Ora l'uomo nel suo agire, ha delle mire, anche se non sempre chiare o consapevoli. Ma supponiamo casi di consapevolezza.


Certamente l'azione culturale dell'uomo sulla natura ha la sua origine da uno stato di bisogno particolare, dal fatto che siamo una scimmia nuda e proviamo freddo e ci sentiamo particolarmente indifesi (condizione assai singolare in paragone ad altri esseri viventi).


Dal fatto che non abbiamo un'attrezzatura di offesa e di difesa naturale. Gli strumenti sembrano dunque una necessità assoluta per la nostra condizione. E tuttavia questo bisogno originario non spiega tutto.


Oppure spiega anche il fatto del superamento nell'uomo dei limiti generali della natura: il fatto di aver sfidato la natura per conpensare le nostre debolezze costitutive ci ha portato a tentare la forzatura oltre i limiti generali degli esseri viventi. La nostra sfida culturale non si ferma alla volontà di sopravvivere, ma mira a oltre-vivere: ciò che il lavoro culturale ai suoi massimi livelli persegue è una sfida al destino, mirando a superare i limiti generali: la fatica, la malattia, la morte.




LAVORERAI CN IL SUDORE DELLA FRONTE


Anche questa sfida si porta con sé le peculiarità umane.
È vero che tutti gli animali si affaticano, ma è anche vero che noi dobbiamo affrontare una fatica maggiore, dobbiamo pensare, elaborare, sperimentare, esercitarci, lavorare.


Cosa vuol dire lavorare?


Vuol dire trasformare la natura per renderla adatta al consumo dell'uomo. Dobbiamo ri-crearla. Ogni animale cerca e prende, noi dobbiamo cercare, pensare a come trasformare e trasformare. Il nostro dispendio di energia è costitutivamente maggiore, sistematicamente e continuativamente maggiore a quello di altri animali.


"Lavorerai con il sudore della fronte"


maledizione assolutamente vera che comporta la trasformazione di se stessi, la forzatura sul proprio fisico, l'esercitazione del proprio corpo per renderlo resistente al surplus di lavoro o di competizione interna di cui sente il bisogno.


D'altra parte questo sforzo specifico (della specie) in eccesso ci porta a comportamenti apparentemente assurdi:


da un lato dedichiamo una parte dell’attività a forzare il nostro corpo per renderlo atto alla sfida (ci palestriamo),


dall'altro inventiamo continuamente macchine che ci facciano risparmiare fatica, inventiamo tapis roulant per faticare e ascensori per non faticare, punch ball per superare i limiti delle nostre braccia e centrifughe per risparmiare il lavoro delle nostre braccia.


Anche il nostro rapporto con la malattia è particolare. Sebbene anche gli animali e le piante siano soggetti agli attacchi di vari agenti patogeni la condizione dell'uomo è assolutamente diversa, noi abbiamo la malattia incorporata, nasciamo con difetti dentari, oculistici, ossei, epidermici che non hanno riscontro nel resto degli altri esseri viventi: alcune piante e animali si ammalano, noi nasciamo tutti chi più chi meno, malati. ibridati.



MORIRE NELLA NATURA



Un giorno non ho più trovato in casa una mia gattina. Cosa strana. Per intuizione sono andato a cercarla dove l'avevo trovata piccolissima, in un campo vicino a casa. Era lì. Perché c'era andata? Aveva una piccola cicatrice sulla fronte. L'ho ripresa e si è fatta prendere tranquillamente, in una sorta di rassegnazione, accettando che la strapparsi al suo destino naturale, alla morte e al suo modo di accettarla. Era invasa dal cancro e dopo poco sarebbe morta con una iniezione letale. Lei che era andata incontro alla morte  come fenomeno naturale tornando nel luogo in cui era stata salvata, nel luogo in cui aveva avuto la vita. Per vedersela togliere in modo artificiale.


La nostra sfida alla natura ci porta a ribellarci alla natura anche nel suo tratto terminale e definitivo. Abituati a ri-creare La natura, ne rifiutiamo tutte le caratteristiche e la sfidiamo fino all'ultimo. L'accanimento terapeutico diventa il nostro destino.
Ma ovviamente il nostro rapporto con la natura non è un rapporto individuale, è un rapporto specifico, di specie che, quindi, diventa sistemico nel senso che mira a costruire sistemi, cioè universi organici, mondi paralleli a quello dato dalla natura, mira a costruire il paradiso




LE PAROLE-ZERO

Forse dovremmo distinguere i nomi dai fatti. Per non confonderci.

Cominciamo a eliminare i nomi che vorrebbero connotare il paradiso e che sono solo confusivi: si tratta dei nomi-zero, quelli che vorrebbero dire il tutto e che non dicono niente perché nessun tutto è frutto dell'esperienza.


Parole come eternità e infinito sono il risultato dei limiti umani. Mentre vorrebbero alludere al trascendimento di questi limiti, li rivelano. Mentre vorrebbero dimostrare che l'uomo va oltre se stesso, rivelano semplicemente il fatto che l'uomo non sa vedere una fine e può solo indicare come trascendimento questa sua incapacità, il senza fine, cioè l'assenza di visione oltre a ciò che è finito.

Oppure, con eterno, ciò che sta fuori (ex) da ciò che riusciamo a concepire con l'esperienza: il terno, la triade del tempo (passato, presente, futuro).


Fra queste parole-zero che rivelano l'impossibilità per l'uomo di trascendersi, c'è la parola felicità. Essa viene comunemente percepita come il massimo del bene, senza che alla parola bene, e soprattutto al suo superlativo, massimo, sia possible dare un senso nel quale far entrare l'immaginazione.
L'etimologia fa risalire la parola a féo, produco e quindi alla produzione, anche della terra, alla fecondità.
Che vuol dire?
Da una parte niente, cioè l'impossibilità di immaginare ciò che fingiamo di immaginare.
Dall'altra il fatto che per poter operare questa finzione fobbiamo ricorrere a ciò che invece conosciamo e che è proprio degli uomini, cioè alla produzione, alla cultura, al fare, dal quale possiamo in qualche modo espungere la componente della fatica che ciò comporta per guardare i frutti, i beni che ciò offre.

Ma, appunto, se la felicità dell'uomo è esattamente ciò che l'uomo è, cioè il suo contatto culturale con la natura, la felicità non si stacca dalla terra e dalla sua quotidianità: rappresenta semplicemente la condizione umana.

Distogliamo quindi la nostra attenzione dai nomi e concentriamoci su ciò che l'uomo fa, il paradiso concreto che riesce a produrre.


IL PARADISO DEGLI UOMINI

Che fanno davvero gli uomini nel costruire la natura, cioè il loro paradiso?

Da una parte c'è il progetto, poi la realizzazione.
Da una parte le idee, dall'altra i fatti.
Da una parte le visioni del mondo, le teorie, la scienza, la religione, dall'altra tutto ciò che esse diventano nell'essere perseguite.

Fondamentalmente tendono tutte a diventare ideologia, non solo le teorie, ma anche la religione ma anche la scienza che si raggruma in paradigmi che tendono a difendere se stessi.

Cos'è l'ideologia?

Una visione d'insieme che ricostruisce mentalmente la realtà fino a sostituirla, e quindi a perderne il contatto.

Per contattare la natura l'uomo deve agire culturalmente e la cultura deve scoprire la natura per entrare nelle sue viscere e trasformarla.

Solo che, dopo alcune scoperte essenziali, la cultura tende a generalizzarsi, ad andare oltre ciò che ha scoperto e a supplire a ciò che non ha scoperto con due movimenti:

1. Da una parte inventando, facendo opera di fantasia, forzando mentalmente ciò che non ha capito praticamente.

2. Dall'altra proiettando la forzatura teorica in forzatura pratica, con il ricorso alla violenza.

Mi ha sempre meravigliato il contrasto che emerge nel passaggio dalla teoria alla pratica.
Per esempio, i greci che credono nel destino o i protestanti che credono nella predestinazione, cioè nell'assenza di incidenza della volontà umana, hanno prodotto il modello democratico, cioè il ricorso alla volontà di tutti gli uomini. Anche se il modello democratico  è in effetti un modello di abbandono al destino, non si può negare che esso passi necessariamente attraverso il ricorso all'esercizio e al confronto delle volontà degli uomini.

D'altra parte il modello comunista che punta all'abolizione dello stato come obiettivo finale ha in realtà prodotto l'esempio insuperato di statalismo onnipervasivo.

Oppure il pacifismo che si trasforma in azioni di guerra e nasconde sotto di sé pulsioni violente. Alla stessa stregua del moralismo che invece di essere una propria guida interiore si fa arma d'attacco, di giudizio e di violenza verso l'altro.

Forse è proprio la tendenza a universalizzarsi, a uscire dai limiti della propria competenza, di ciò che davvero abbiamo imparato a gestire culturalmente nel contatto con la natura che crea il rovesciamento dei fini e che trasforma il paradiso degli uomini in inferno.

O forse è qualcos'altro.