ICONE E ICONOCLASTIA


Per quanto appaia una alternativa vecchia e superata, quella fra icone e iconoclastia, in realtà ha una forza che rischia di diventare crescente.

Non si tratta solo del suo ritorno violento nel mondo dell'in-tegralismo islamico, ma anche della sempre più grande insofferenza verso la sovrabbondanza di immagini che ci circonda e che ha fatto nascere movimenti sparsi nel mondo, soprattutto anti-pubblicitari, ma con lembi incrociati con varie tendenze artistiche contemporanee,  a partire, se vogliamo, dallo stesso situazionismo.


Originariamente la parola nasce nel mondo cristiano orientale, ma, come abbiamo visto è ben presente nell'Islam, e lo stesso astrattismo può esser considerato una forma di iconoclastia nel senso di distruzione delle immagini figurative.


Il senso dell'iconoclastia è collegato alla condanna degli idoli, gli idoli sono considerati tali quando le rappresentazioni sono rappresentazioni degli dei o degli uomini.

La domanda è dunque relativa a ciò: perché?

La rappresentazione degli dei è considerata falsa, la rappresentazione degli uomini pure. La rappresentazione degli dei è falsa perché le rapresentazioni non sono dei, e le rappresenazioni degli uomini perché tali rappresentazioni tendono a deificare gli uomini e quindi rappresentano una falsità rispetto alla realtà.


In effetti le immagini sono condannate in quanto falsificatrici della realtà.


L'iconoclastia come detto, non è circoscrivibile all'evento che gli ha dato il nome. Intanto è riemersa nel mondo occidentale e religioso con il movimento della Riforma, non in quanto rottura delle immagini, ma in quanto rifiuto delle immagini. In tal senso si unisce al rifiuto generale delle immagini che coinvolge praticamente tutto il mondo semitico.


Ma ne possiamo individuare tracce anche all'interno dei movimenti artistici occidentali: l'astrattismo come detto sopra è stato anche interpretato come un movimento iconoclasta, distruttore delle immagini, collegato del resto a molti esponenti ebrei.


Tuttavia in varie civiltà si sono verificati ripetuti momenti iconoclasti tanto da poterli considerare come appartenenti a realtà tradizionali. Nell'antico Egitto per esempio una nuova dinastia spesso distruggeva le opere della precedente, e in Cina il fenomeno era ancora più sistematico ed è durato fino all'ultimo imperatore, considerando tale Mao Tse Tung.

È vero che questi fenomeni sono meglio classificabili come damnatio memoriae ma il loro collegamento con l'iconoclastia non è solo connesso alla forma della distruzione violenta delle immagini, ma anche al senso profondo che ciò rappresenta: se le immagini vengono distrutte è perchè esse si pongono come idoli, da qui il legame con l'iconoclastia, anche se non in relazione all'idea di un Dio geloso, quanto in relazione con la deificazione di una dinastia o di un monarca.


Ma se ci avviciniamo ancora alla contemporaneità, già in essa possiamo scorgere l'opposizione alle immagini, per esempio nelle installazioni concettuali e anti-visive.

E, soprattutto alla reazione oppositiva alla crescente invasione delle immagini.

Ma cosa rappresenta fondamentalmente l'opposizione alle immagini, la condanna dell'idolo?


L'idolo è ciò che si sostituisce al vero Dio, ma potremmo dire che è ciò che si sostituisce alla realtà, come pure vi si sostituisce il sogno - non quello che accompagna il sonno e che può essere interpretato come una rivelazione degli dei, ma quello auto-indotto con la fantasia, che rappresenta invece una fuga dalla realtà.


Ora, l'immagine rappresenta la realtà ma ne è sempre e soltanto una misera riproduzione.

Perché allora ciò avviene e viene preferita alla realtà stessa?

Perchè la realtà è più ricca ma difficile e dura da afferrare, è minacciosa ed esigente, impegnativa.


Infine, se l'iconoclastia è un fenomeno ricorrente, l'iconìa - cioè la tendenza alla costruzione delle immagini - è un fenomeno ineliminabile, connaturato alla stessa ominità dell'uomo: l'uomo ha l'immagine dentro di sé in modo indissolubile, in modo incarnato, ce l'ha nella semantica, cioè nell'invasione dell'esterno nel proprio interno, nell'idea esterna che si incarna nell'intimità del suono umano.


Se guardiamo bene però l'invasione semantica, in certo senso, rappresenta l'invasione dell'uomo da parte del reale, mentre l'iconìa rappresenta l'esatto contrario: la sostituzione del reale con l'interiorità dell'uomo.

Se l'invasione del reale nell'uomo rappresenta lo strumento per andare verso il reale e agire su di esso, l'iconìa rappresenta non l'andare verso il reale, ma l'andare verso una sostituzione interiore dell'esteriorità del reale, un rovescia-mento quindi, uno snaturamento.

Da un certo punto di vista, dunque, potremmo dire che l'iconoclastia non fa altro che cercare di mettere le cose a posto.

 


Lo Sguardo Iconoclasta


"Lo sguardo si posò sulla fronte, la percorse verso il basso, seguì la linea del naso, continuò sulla bocca, ne accarezzò le labbra, sopra e sotto, l'infossatura in basso, verso il mento, la linea del collo, la rotondità della spalla, la caduta dei capelli e lo sguardo, gli occhi grandi, abbassati e dimessi nella grandezza dell'abbandono."


L'espressione "la grandezza dell'abbandono" allude a qualcosa di bello, o di positivo, di apprezzabile, ma nient'altro all'infuori di questa espressione che contiene la parola grandezza mostra connotazioni in tal senso. Eppure la descrizione dovrebbe dare tale impressione generale anche in assenza di aggettivi che si riferiscano alla bellezza. Perché?


Perché lo sguardo descrive se stesso nel corso di un'azione innaturale, nel suo guardare lento, nel suo interesse all'oggetto. La grandezza dell'abbandono potrebbe alludere a questa rassegnazione, alla forza interiore di chi riesce a mantenere la propria autenticità sotto l'azione dello sguardo altrui.


Lo sguardo dell'altro che si posa e ti guarda lentamente rompe la barriera naturale del rispetto, esprime potere, prepotenza oppure un'apprezzamento incontenibile, un'ammirazione che non riesce a frenare, un'atteggiamento di sfida o di perdizione.

Chi si rassegna senza fuggire o senza ribellarsi allo sguardo dell'altro esprime grandezza interiore.


"Quando il gatto ti guarda, è pronto alla sfida. ti studia. guarda gli occhi, l'espressione del volto, la tua postura. Niente del tuo corpo avrà interesse per lui, non le carezzevoli mani, né la passione dello sguardo. soltanto la misura della tua forza e il calcolo del punto debole, dove affondare le unghie e provocare dolore.

Se il gatto è in riposo e lo guardi percorrendo con il tuo sguardo il suo corpo, scatterà in attenzione e si porrà in atteggiamento di sfida."


Guardare un ritratto sembra la cosa più naturale del mondo, una cosa neutra, un oggetto solo apparentemente tridimensionale, piatto in realtà, realizzato su materiale pregiato, una tela, una parete ad affresco, la pala di un altare, oppure su un foglio modesto di carta comune, e con tecniche lunghe e laboriose come sono quelle della pittura tradizionale, o veloci come lo scatto di una foto che può oppure no prevedere azioni successive di ritocco.


Eppure quell'oggetto non comporta soltanto un lavoro, esso racchiude in sé una forte tensione, la tensione della persona che ha posato e che ha vinto la propria resistenza interiore a sottoporsi allo sguardo dell'altro, passivamente, a sottostare all'indagine del proprio sé, a imporsi la più innaturale delle posture, quella dell'immobilità che è propria della morte e non della vita.


"Il suo sguardo mi attraversa percorrendo ogni angolo del mio volto, ogni angolo del mio corpo, pronto a cogliere ogni mia debolezza, ogni mia disponibilità, ogni mio cedimento, pronto a impossessarsi di me, a distruggermi o a deridermi."


L'altra parte della medaglia è ancor più innaturale: lo sguardo che attraversa il corpo dell'altro, non rinuncia a cercare nell'altro le debolezze, le tentazioni, le cerca, le approfondisce, le induce. Ma non per sé, per altri che non conosce, per una propria immagine che ha di coloro che guarderanno la sua opera, per un'idea di pubblico che può essere del tutto arbitraria ma che finisce alla fine proprio lui a creare con la sua opera. Il prezzo è rinunciare a se stesso, uccidere le proprie pulsioni, provocare la propria tentazione interiore e trattenerla, dominarla, tenerla innaturalmente inerte.


Questo complesso di irrealtà, che fugge la realtà, le proprie pulsioni, che rinuncia a se stesso e che si aliena ad altri che neppure conosce e che costruisce sulla base delle proprie pulsioni represse, viene buttato nel mondo, imposto a noi per ridurre noi stessi alle proprie repressioni indotte, invade la realtà sostituendola con una proiezione malata, uccide la spontaneità e induce una malizia impotente.

Che fare allora, che fare?



Spezzare, spezzare, iconoclastizzare, rompere l'illusione, liberare il mondo, se stessi, l'anima profonda dell'uomo, operare una iconoclastia generale.

per interventi inviare il contributo cliccando su EMAIL, qui a fianco - verrà pubblicato su questa paginaemail

- L’IMPOSTAZIONE DI PARTENZA PER I LAVORI CHE AVREBBERO COSTITUITO LA MOSTRA

- SOTTO il brano composto appositamente per la mostra e recitato da Claudio Balducci e Gionni Voltan in occasione dell’inaugurazione