Letteratura

 

Epifanie, ovvero apparizioni rivelatrici, portatrici di un messaggio che può avere valenze oscillanti tra il sostegno nella difficile arte della sopravvivenza e, all’opposto, la promessa di una miracolosa salvezza.


Ci sono momenti in cui, in modo inconsapevole, ci si chiede cosa fare e allora sopraggiungono le epifanie, inaspettate, a illuminare la nostra mente. Il fenomeno è stato studiato in psicologia, basandosi sugli studi di Freud, per il quale le epifanie possono essere interpretate come le pulsioni dell’Es che riescono ad abbattere la frontiera del Super-io, in modo da arrivare all’Io in forma di istantanee illuminazioni.

Ma è molto più interessante vedere come i poeti hanno vissuto il fenomeno e ne abbiano fatto materia delle loro opere.


A incominciare dalla letteratura latina, matrice della nostra letteratura, che ci ha dato quel fantastico libro delle Metamorfosi che ha il suo momento culminante proprio in un’ apparizione, quella della dea Iside a Lucio, il protagonista delle straordinarie vicende raccontate.

Lucio, trasformato in asino, viene invitato in sogno dalla dea Iside ad assistere alla processione in suo onore e a mangiare le rose della corona a lei dedicata. Lucio obbedisce e riacquisterà la sua forma umana, inoltre si farà iniziare al culto misterico della dea e ricoprirà le cariche più alte della gerarchia sacerdotale.

In quanto si conclude con un'iniziazione al culto isiaco, l’opera è stata definita mistagogica (mystes-ago: colui che introduce ai misteri), anche se le caratteristiche mistagogiche sono presenti solo nell’ultimo libro, l’undicesimo, mentre i libri precedenti sono pieni delle più diverse peripezie. Ma proprio per questo il romanzo si configura come una storia di salvazione e testimonia il clima di inquietudine religiosa tipica del II secolo d.C.. Le Metamorfosi si concludono con la contentezza e la serenità che Iside infonde agli uomini e a tutta la Natura, per prendere parte alle quali il lettore non deve fare altro che iniziarsi ai culti misterici della dea. Nella preghiera che Lucio le rivolge, è possibile vedere come a Iside vengano attribuite molte caratteristiche che poi la religione cristiana attribuirà a Maria, la madre di Gesù, e la loro elencazione è veramente piena di interessanti sorprese.


Anche la festa dell’Epifania, nella quale la Chiesa Cattolica celebra, con la visita dei Re Magi, la manifestazione di Dio a tutti gli uomini e che rappresenta il culmine delle cerimonie che scandiscono l’anno liturgico, nella cultura popolare si accompagna a simboli e tradizioni diverse di derivazione molto antica. Rimanendo nell’ambito religioso, ci sono i simboli provenienti dai culti solari, alla cui figura del Sol Invictus si è sovrapposta quella di Cristo. A Iivello folkloristico, la notte che precede la festa dell’Epifania è considerata notte di eventi miracolosi, dove gli animali parlano, per esempio, e questi aspetti dell'Epifania sono presenti anche nella letteratura comica greco-latina.


“La dodicesima notte” dopo il Natale, quella dell’Epifania, molto prima che nell’opera di Shakespeare è presente nella commedie latine e rinascimentali alle quali la Dodicesima notte di Sir William si ispira.

Tanto basti per dire che il tema è presente nella tradizione letteraria europea, variamente interpretato in coerenza con le caratteristiche del contesto e dell’autore.

Epifanie sono chiamati quei momenti di improvvisa e inaspettata chiarificazione interiore presenti nelle opere di Joyce e Rimbaud chiamò Illuminazioni le sue visioni surreali.

Nella Lettera del Veggente del 1871, Arthur Rimbaud dice:

«Io dico che bisogna essere veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento dei sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia: cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto - e il sommo Sapiente - Egli giunge infatti all'Ignoto poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, sbigottito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste!» Dunque ogni parola è un incantesimo, una rivelazione.


Ma, lungi dal fare la rassegna della presenza e della tipologia delle Rivelazioni nelle varie letterature, basti proseguire su quell’ aspetto femminile e salvifico inaugurato da Apuleio per arrivare subito alle apparizioni dantesche, prima fra tutte quella di Beatrice. Già nella Vita Nova “par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare” ma è nella Commedia che essa si mostra in tutta la sua funzione salvifica.


La donna angelicata ritorna poi nella letteratura del Novecento nella poesia di Eugenio Montale, che riprende intenzionalmente motivi danteschi, in primis l’epifania della donna angelo, reinterpretandoli alla luce della sua consapevolezza della solitudine e dello smarrimento dell’uomo moderno.

Ma rimane in lui la fiducia nella poesia, non come fonte di verità, ma come capacità di riscatto dalla disperazione e come suprema dignità di chi non vuole scendere a compromessi e vuole mantenersi coerente con i propri principi di onestà, intellettuale innanzitutto.

A chi lo rimproverava di mantenersi lontano dagli impegni politici (Pasolini) rispondeva nel 1971 ne Lettera a Malvolio:


“No, non si trattò mai d'una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.”


Nella prima raccolta poetica, Ossi di seppia, se da una parte c’è la stoica affermazione del male di vivere e dell’impossibilità della conoscenza (“Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”) dall’altra c’è anche la prima delle presenze epifaniche:


Forse un mattino andando in un aria di vetro

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.


Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi case colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano col mio segreto.


Queste liriche testimoniano la rinuncia alle facili illusioni, ma anche la convinzione che la poesia è anche conoscenza, sebbene negativa.


In Ossi di seppia (Casa sul mare) non manca neppure la donna che sfugge al comune destino di insensata precarietà se, a lei che gli chiede “se così tutto vanisce” lui risponde:


Vorrei dirti che no, che ti s’appressa

l’ora che passerai di là dal tempo;

forse solo chi vuole s’infinita,

e questo tu potrai, chissà, non io.

Penso che per i più non sia salvezza,

ma taluno sovverta ogni disegno,

passi il varco, qual volle si ritrovi.

Vorrei prima di cedere segnarti

codesta via di fuga

labile come nei sommossi campi

del mare spuma o ruga.

Ti dono anche l’avara mia speranza.

A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:

l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.


Il cammino finisce a queste prode

che rode la marea col moto alterno.

Il tuo cuore vicino che non m’ode

salpa già forse per l’eterno.


Successivamente, nel 1946, nell’Intervista immaginaria, Montale così si esprime: “Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili.”

Ancora nel 1960, in Dialogo sulla poesia, egli definisce la sua poesia metafisica, in quanto è “l'arte che nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione":

“Tutta l’arte che non rinuncia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può dirsi metafisico”.


Dunque Montale ci spiega egli stesso “la presenza della donna angelo che offre un momento di speranza di salvezza, pur non rinunciando alla ragione che a quella salvezza non crede.”


Di se stesso dice di essere un “nestoriano smarrito”:


“Il nestoriano, l’uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido ed astratto monofisita”.


Nella stessa Intervista immaginaria (nella quale l’interlocutore è Marforio, una delle cinque statue parlanti di Roma, una voce muta, di cui s’indovinano le domande solo mercè le risposte del poeta) Montale afferma:


“ …volevo che la mia parola fosse più aderente…aderente a che?...sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione.”


Le possibilità evocate sono l'anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete, cioè una specie di miracolo laico che avviene in momenti epifanici, anche se a manifestarsi è il “nulla", il "vuoto", e dunque l'assurdità dell'esistenza, ma comunque un’epifania positiva giacchè contrapposta all'"inganno consueto".


La seconda raccolta, Le occasioni, ha nel titolo proprio quegli istanti dell'esistenza durante i quali è possibile intravedere una realtà diversa, come ne i limoni:


Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d' oro della solarità.


È in questa raccolta che diventa centrale la figura salvifica di Clizia-Irma Brandeis, l’intellettuale ebrea esule in Canada amata da Montale, e ancor di più nella successiva raccolta La Bufera del 1939, il cui titolo allude alle minacciose nuvole della guerra.


Nel mito, narrato da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi al v. 270 “vertitur ad solem mutataque servat amorem” (si volse verso il sole ed anche così mutata conserva l’amore, ripreso da Dante con “il non mutato amor mutata serbi”), Clizia fu trasformata in girasole dopo che Apollo l’abbandonò. Essa diventa l'emblema della vita terrena tutta protesa verso la luce del Sole, dove il sole s’identifica con Dio.

Infatti l’analisi comparata della figura di Beatrice e di quella di Clizia mette in luce come "la domanda religiosa che sale dall'uomo per trovare appagamento in un senso trascendente non è ignota a Montale ed essa trova sicuramente il suo vertice nella terza raccolta: Iride e Clizia sono le mediatrici di questa domanda”.


Il codice semantico della luce è comune sia a Beatrice che a Clizia, ma mentre la prima s’identifica colla luce del Sole-Dio, in quanto simboleggia la Grazia divina ed ha il suo posto eterno nell’Empireo, Clizia rimane creatura terrena destinata alla morte. Non solo, ma nell’imminenza della distruzione e della morte, l’ebrea Clizia simboleggia il necessario sacrificio.

Il confronto fra i due brani seguenti rende palese la differenza fra il poeta medievale e il poeta del Novecento, teologi ambedue si può dire, ma di due teologie diverse. Quella di Dante è saldamente fondata sulla filosofia tomistico-aristotelica, mentre di sé Montale dice, in “Diario del ’71 e del ’72” nella lirica Come Zaccheo: “Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro//per vedere il Signore se mai passi,//Ahimè, non sono un rampicante ed anche//stando in punta di piedi non l’ho mai visto.”


Purgatorio, canto XXXI vv.133-138, siamo nel Paradiso terrestre da dove il viaggio ripartirà verso il Cielo:


“Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”

era la sua canzon “al tuo fedele

che, per vederti, ha mosso passi tanti!

Per grazia fa noi grazia che disvele

a lui la bocca tua, sì che discerna

la seconda bellezza che tu cele”.


La Bufera, Primavera hitleriana:


………………….Guarda ancora

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

che il non mutato amor mutata serbi

fino a che il cieco sole che in te porti

si abbacini nell’Altro e si distrugga

in Lui, per tutti.


Dunque l’epifania di Clizia è un’ipotesi di riscatto e di salvezza per tutti quanti gli uomini, almeno quelli accomunati dalla speranza di un futuro che superi il momento storico in cui a Firenze è passato a “volo un messo infernale tra un alala’ di scherani, un golfo mistico acceso e pavesato di croci a uncino.”, ma non senza il sacrificio cristologico di sé.

Clizia come Beatrice, per riscattare gli uomini, s’identifica nel Sole-Dio, ma mentre Beatrice potrà guardare il sole “come aguglia non si affisse unquanco”, Clizia si distrugge nella vista dell’“Altro” portando in sé un “cieco sole”.

Il dio nel quale si scioglie Clizia è piuttosto una “divina indifferenza”, insensibile al dilemma tra immanenza e trascendenza che attanaglia l’uomo. È il poeta stesso a spiegarci, nell’Intervista Immaginaria, che la sua poesia “cerca una verità puntuale, non una verità universale”.


In Storia di tutti i giorni, scritta nel 1973 e compresa nella Silloge “Quaderno di quattro anni”, c’è il seguente componimento:


L’unica scienza che resti in piedi

l’escatologia

non è una scienza, è un fatto

di tutti i giorni

Si tratta delle briciole che se ne vanno

senza essere sostituite.

Che importano le briciole va borbottando

l’aruspice,

è la torta che resta, anche se sbrecciata

se qua e là un po’ sgonfiata.


La visione del mondo montaliano è fatta di briciole ed è opposta a quella di Dante davanti al quale “si squaderna tutto l’universo”.


Sempre nell’Intervista Immaginaria, Montale spiega che “L’ipotesi della grazia non è recente: era già in Casa sul mare ed in Crisalide e già qui era solo per altri. In Crisalide volevo stringere un patto col destino per scontare l’altrui gioia con la mia condanna- In Casa sul mare penso che per i più non vi sia salvezza, ma che taluno sovverta ogni disegno e passi il varco. Può essere un motivo cristiano; come può essere un motivo cristiano Iride, l’ebrea che io chiamo Cristofora o portatrice di Cristo. Qualche fermento cristiano è senz’altro in me, ma io non sono un cattolico praticante; io rispetto tutte le religioni come istituzioni.”


In questa religiosità immanentistica, alla quale non sono ignote le posizioni filosofiche contemporanee, in Clizia è riposto anche il sentimento della fede:


Ho tanta fede in te

che durerà

(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)

finché un lampo d'oltremondo distrugga

quell'immenso cascame in cui viviamo.

Ci troveremo allora in non so che punto

se ha un senso dire punto dove non è spazio

a discutere qualche verso controverso

del divino poema.


So che oltre il visibile e il tangibile

non è vita possibile ma l'oltrevita

è forse l'altra faccia della morte

che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.

………………………………….

Ho tanta fede che mi brucia; certo

chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere

senza accorgersi che era rinascita.


Per finire questa riflessione sulla figura femminile, ecco la brevissima lirica, “Due destini”, che è del '73 e fa parte del Quaderno di quattro anni.


Celia fu resa scheletro dalle termiti

Clizia fu consumata dal suo Dio

ch’era lei stessa. Senza saperlo seppero

ciò che quasi nessuno dice in vita.


Accanto a Clizia che si sacrifica per tutti incontriamo Celia, personaggio di un dramma di Eliot, che “fu crocefissa viva e divorata dalle formiche in un villaggio di negri presso i quali ella si era recata come missionaria e infermiera».


Anche qui è evidente come Montale utilizzi concetti religiosi in modo del tutto laico.



EPIFANIE POETICHE, MONTALE INNANZITUTTO
Chiara Recchia