Arte UN ALTRO QUI

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Alla ricerca di chi è stato ricercato e preso, di chi ha ricercato e trovato. Alberto Burri e Giuseppe Berto si conobbero nel campo di concentramento di Hereford, in Texas, prigionieri di guerra, nel 1944. Due grandi del secolo scorso, che si distinsero nella letteratura e nell’arte. Tutti e due bisognosi di comunicare profondamente, ambedue capaci di inventare “parole” nuove. Burri realizza nel criminal camp i suoi primi lavori, si dice con i sacchi di juta delle patate. Berto affascinato dal senso del concreto di Sherwood Anderson e da Hamingway scrive “Il cielo è rosso”, ma sarà con il pluripremiato - e universalmente riconosciuto - “Il male oscuro”, che inventa un nuovo modo di esprimersi. Scrisse Berto: A trent’anni Burri decise che non avrebbe più fatto il medico, perché si trovava in disaccordo con l’intera umanità. Così cominciò a dipingere. V’era nella sua pittura una forma che ci sconcertava e una sostanza che ci sfuggiva. Certamente era onesto Berto ad esprimersi così: Burri di lì a poco avrebbe profanato certezze secolari nel mondo dell’arte. L’informale e la ricerca di materiali extrapittorici, che lui veicola all’arte, si contraddistinguono, definendosi in modo fermo e acquisendo sempre maggior forza nel corso degli anni ’50. La materia, che era sempre stata strumento fisico della forma, con Burri inverte il rapporto: l’immagine sottostà alla materia, così che congiuntamente all’azione e al segno, diventa protagonista. L’opera non è più una raffigurazione della realtà ma è un costituente della realtà. Burri comincia con i sacchi che lacera, strappa, sfibra e cuce, cerca di ispessire la materia pittorica con catrame, vinavil, cementite, segatura, pietra pomice, polvere d’ alluminio, sabbia. Le plastiche e le lamiere permettono più “abusi”, l’azione è espressa dalle cesure, combustioni, saldature. L’utilizzo del cellotex gli permette di esprimersi con maggior elasticità, con fessure lievi e recisioni profonde. Così come i cretti, che può modulare a suo piacimento. La ricerca del colore e la stessa scelta dei titoli delle opere sono essenziali, diretti, puliti (Grande rosso, Grande cretto nero, Sacco nero e rosso). Berto, dal canto suo, percorre un faticoso cammino che lo porterà a diventare semplice, crudo e diretto: squarcia, soffoca, confessa, contesta, assolve, senza tirar mai fiato, riuscendo a impigliare occhio e cervello del lettore e regalando con beffa amara ma riservata, la capacità di sondare la parte di noi stessi più buia, quella che rigettiamo col risultato di ingigantirla, in soluzione al nostro sforzo di eclissarla. Burri e Berto feriscono e “curano” le e con le proprie opere.

Interessante è notare come la loro ricerca sia alla base di altre e nuove ricerche attuali, come “lo studio del comportamento dei leganti polimerici impiegati nei film pittorici, attraverso l'individuazione e determinazione di parametri chimici, fisici e meccanici …  per la conservazione e il restauro dell'arte contemporanea.” O ancora, scrittori che si sono rifatti al linguaggio originale di Berto: penso a Filippo Tuena nei capitoli in cui parla lo scrittore in “Le variazioni Reinach”.

Appassionante, infine, è constatare come questi maestri con la loro indagine artistica siano stati precursori  ed ispiratori di schiere di altri artisti, in una vera e propria filosofia dell'essere.



ALBERTO BURRI E GIUSEPPE BERTO: 
ALLA RICERCA DI CHI È STATO RICERCATO E PRESO E DI    CHI HA RICERCATO E TROVATO
Antonella Sassanelli